Disfare genere e carceri

di Carlotta Cossutta ed Elisa Virgili

Come si fa ad insegnare in un carcere mentre si pensa ad abolirlo?


“Il regno della libertà non giunge rendendo gradualmente più confortevoli i letti delle prigioni”. (Ernst Bloch)

Ogni volta che varchiamo i cancelli del carcere per insegnare siamo consapevoli entrare in un luogo che vorremmo abbattere, non riformare. Lo sappiamo e ce lo diciamo: non è rendendo i letti delle carceri più comodi che potremmo risolvere il problema del carcere.


Eppure continuiamo ad entrarci: per iniziare a rompere quei confini tra dentro e fuori che rendono il carcere uno spazio invisibile, pensato come separato dalla società e da essa scisso. Un rimosso che ci sembra ancora di più tale ora che, dopo qualche articolo in seguito alle rivolte del 7 e 8 marzo, è scomparso completamente dai giornali e la questione della sicurezza sanitaria in carcere sembra non essere un problema finché le carceri rimangono sistemi chiusi, con servizi dall’esterno ancora più limitati e colloqui sospesi. 

Invece pensiamo che una prospettiva abolizionista non possa che partire dalla contiguità tra le prigioni e il mondo, dal legame strettissimo tra la struttura sociale e quella carceraria. Per questo insegnare in carcere, per noi, vuol dire prima  di tutto poter attraversare quello spazio: non per abbellirlo o far sì che sia più confortevole, ma per trasformarlo, almeno per le due ore di lezione settimanali, in uno spazio pubblico.

Ci troviamo così sempre immerse in un doppio movimento: entriamo in carcere perché convinte della necessità di abolirlo e ne usciamo con nuovi strumenti e nuovi discorsi per rendere la nostra lotta più consapevole. Le nostre lezioni sono un modo per aprire spazi di discussione, per imparare da chi, dentro, porta avanti una riflessione collettiva da anni sulla questione carceraria. All’interno di questa riflessione vorremmo condividere una prospettiva femminista, che crediamo imprescindibile per interrogare il binomio antitetico libertà/sicurezza che sorregge l’istituzione carceraria e la nostra società.

Come ci ricorda Angela Davis pensare di abolire le prigioni è quasi inimmaginabile, tanto è “difficile immaginare un ordine sociale che non sia fondato sulla minaccia di relegare certe persone in posti orribili allo scopo di separarle dalle loro famiglie e comunità. Il carcere è considerato talmente “naturale” che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno”. Per noi, entrare in carcere, è un modo di ricordarci quanto sia necessario.

Tutto questo cerchiamo di farlo da un paio d’anni, da quando teniamo un laboratorio di filosofia politica all’interno di un carcere maschile. Nello specifico parliamo di storia del femminismo e gli studi di genere. Al laboratorio partecipano una ventina di studenti dell’Università e una ventina di studenti interni al carcere che possono essere iscritti all’Università o meno. In questi due anni ci siamo poste parecchie domande, sia sui contenuti e i concetti condivisi, sia sulle metodologie adottate per farlo.

Chi fa ricerca, scrive e pensa a partire da una prospettiva femminista, è molto attentə a dichiarare il proprio posizionamento. Ovvero a dichiarare da che posizione sta parlando/scrivendo, quali sono le caratteristiche che descrivono quella persona come soggetto e quali sono le caratteristiche che il suo corpo si porta dietro in termini di genere, razza, condizione economica, provenienza geografica ed orientamento sessuale, nella consapevolezza che queste coordinate agiscono sullo sguardo di chi parla e scrive, uno sguardo che non è mai neutro. Questo sguardo produce un sapere situato, come ci ha insegnato Haraway. Quando si scrive è importante dichiararlo a chi ci leggerà affinché i concetti che si leggono possano essere inseriti e interpretati attraverso una specifica cornice. 

Ci sembra che questo sia altrettanto importante quando si insegna. Quando siamo in classe parte del nostro posizionamento è visibile (il genere, la razza), parte è intuibile (la condizione economica dettata dalla nostra posizione di lavoro che è quella di insegnante, anche se la storia che ci ha portato a quel lavoro non è la stessa per tuttɜ). 

In questo contesto in particolare il nostro posizionamento di genere gioca un ruolo chiave. Prima di tutto perché siamo due donne in un carcere maschile, e in secondo luogo per la tematica trattata. Stare con i nostri corpi in questo contesto ci ha messo inevitabilmente nella condizione di decidere che tipo di femminilità performare. Il regolamento dice alle studenti di non indossare abiti provocanti, qualsiasi cosa questo voglia dire, e la regola chiaramente vale anche per noi. Il carcere è una struttura che non solo regola, ma esclude la sessualità in tutte le sue forme. Tuttavia ci siamo sempre sentite di non dover nascondere il nostro genere ma ci siamo trovate a mettere in discussione i modi di performare la nostra femminilità: quale tratto enfatizzare? Quale, tra le caratteristiche di genere che geneologicamente, ovvero per come è stato costruito e raccontato nella storia, compongono l’essere femmina, vogliamo portare in luoghi che, come ci ricorda Tamar Pitch, “sono domini maschili, ma mai esaminati come tali”? Interrogarci in questo modo ha significato da un lato mettere in luce quanto il disciplinamento carcerario viaggi lungo le linee della virilità e della sua negazione, dall’altra tornare a dirci che possiamo fallire nell’incarnare la femminilità prevista e, per questo, aprire possibilità e scelte che facciamo di volta in volta anche stridenti rispetto al contesto.

Nella classe, ancor più che in un testo, si entra in relazione con chi costituisce la classe stessa. Si entra in relazione semplicemente nell’ascolto (quindi nell’interpretazione che viene data alle nostre parole), attraverso domande e interventi, nella condivisione di esperienze e nelle critiche. Se è in questa relazione in classe che in qualche modo si produce sapere, allora conta molto anche il posizionamento di chi compone la classe. Le diverse esperienze, i diversi corpi, le diverse provenienze condizionano la produzione di quel sapere collettivo. Per sua natura una classe di un carcere ha posizionamenti molto diversi tra loro, accomunati, o forse appiattiti, dall’essere detenuti. Ma proprio perché uno degli obiettivi del nostro insegnamento in carcere è la decostruzione delle gerarchie, è importante far emergere questi posizionamenti il più possibile per costruire un sapere condiviso. Viceversa è necessario anche tenerne conto mentre si parla da insegnanti e fare attenzione alle reazioni che si suscita, in particolare in un corso in cui vengono messe in discussione la maschilità e i rapporti tra i generi. Ulteriore grado di difficoltà, e allo stesso tempo ricchezza, i rapporti che si costruiscono in classe variano nel tempo, ed è questa variazione che dà la misura di quello che si sta costruendo e decostruendo.

A tutto questo si aggiunge il fatto che le regole dell’insegnamento in carcere impongono  non solo di non chiedere i motivi della detenzione, ma anche di cercare di fermare ogni racconto in questo senso. Da un lato questa è una cautela interna, imposta dalla amministrazione penitenziaria perché nello spazio della classe si incontrano persone che non lo fanno altrove, ristrette in circuiti diversi, che hanno spazi d’aria diversi. E l’amministrazione vuole evitare che si creino situazioni di conflitto o complicità. 

Si tratta, però, anche di una scelta da parte dell’istituzione universitaria, per evitare di legare le persone ai loro crimini e di trovarsi a giudicarle sulla base di quello che hanno commesso. Proprio questa cautela, però, è disattesa dal silenzio che finisce per circondare le loro azioni: un vuoto, come un buco nero con una forza sempre presente, che impone di tacere sulla domanda che sorge inevitabilmente: come sei arrivato qui? Quale rapporto sociale ha prodotto questa detenzione?

Inoltre, proprio il silenzio, nato per non appiattire i soggetti sul proprio reato, finisce per schiacciarli sul crimine in generale: sono tutti criminali, sembra essere il messaggio, e ogni crimine è uguale, ogni storia la stessa storia definita dal suo esito. Un silenzio, quindi, che definisce i confini di un’esistenza.

Non possiamo non chiederci, però, cosa accadrebbe senza questa regola. Sicuramente potremmo rompere l’uniformità del carcere (che comunque rompiamo lo stesso attraverso i racconti che emergono), ma davvero saremmo in grado di metterci in ascolto e di creare un dialogo critico con chi ha compiuto reati sessuali? Non lo sappiamo, sappiamo solo che anche su questo aspetto esiste una contiguità tra dentro e fuori: quante delle persone a cui insegniamo o che incontriamo ogni giorno agiscono violenza sulle proprie compagne/u, sorelle, partner, amicu? E quanti di questi comportamenti non sono nemmeno percepiti come problematici? L’oppressione sessuale è una struttura, sempre, e forse ci interroghiamo in maniera diversa sul soggetto che la agisce a partire dalla posizione che abbiamo proprio nei confronti di quel soggetto.

Nonostante queste barriere spesso, anche grazie a gli argomenti trattati e la metodologia utilizzata per farlo, emergono racconti personali che riguardano la costruzione della propria identità di genere e come ci si rapporta al genere diverso dal proprio. Molto spesso questo si incrocia con racconti sulla propria sessualità e sul proprio vissuto. Ancora una volta il nostro posizionamento non è neutro, in un duplice modo: se da una parte il rischio è quello di essere percepite come giudicanti, dall’altro non è semplice affrontare confessioni troppo aperte, e parlare di sessualità proprio nel luogo della sua esclusione/repressione. Il carcere, infatti, si caratterizza per un disciplinamento dei corpi che agisce fortemente sulla sfera sessuale: mai riconosciuta come un bisogno, sempre gestita come un pericolo o un possibile elemento di disordine. Per questo, parlarne apertamente da un lato restituisce dignità alla sessualità, dall’altro ne mette in luce i legami col potere e la politica, e in ogni caso perturba lo spazio della classe perché imprevista.

Noi siamo portate a leggere questi racconti come momenti di parrhesia di matrice foucaultiana, ovvero il dire la verità su di sè, raccontare la propria storia in qualche modo ribellandosi al racconto che ne fanno le altre persone, di modi di provare a dire una verità su di sè di fronte a un potere. Sono racconti che sfidano in primo luogo noi stesse, come insegnanti, mettendo in discussione le cornici entro cui costruiamo il discorso, che sfidano gli/le altre studenti, mettendo in campo anche le volte in cui sono stati agiti comportamenti oppressivi (cosa che spesso nei corsi che trattano di questioni di genere rimane un tabù) e che, soprattutto, sfidano il disciplinamento del carcere raccontando di forme di piacere che sovvertono l’ideale della virilità.

Proprio per questo non possiamo fare a meno di interrogarci, ancora, sullo spazio della lezione e sui nostri inviti a dire di sé, a mescolare vite e teorie. Le ore di una lezione sono sempre, in parte, una bolla, un momento di sospensione con un tempo proprio, in cui gli argomenti vengono ripresi a seconda di una scansione stabilita, in orari e modi non scelti. Ma questa sensazione di creare uno spazio sospeso si amplifica in carcere, dove tra una lezione e l’altra non c’è modo di entrare in contatto con gli studenti ristretti, non si danno incontri fortuiti e non si ricevono mail che chiedono chiarimenti o esplicitano una difficoltà. La classe rimane l’unico spazio di condivisione e gli effetti che ha rimangono sospesi fino alla lezione successiva, divisi dall’impenetrabilità del carcere. 

Lasciando il parcheggio del carcere, chiedendo alla sentinella di alzarci la sbarra, non possiamo non sentire che, nello stesso momento, le persone con cui abbiamo parlato e discusso stanno tornando in una cella. Cosa vuol dire ripensare alla lezione in uno spazio coatto? Cosa e come si racconterà quel percorso al compagno di cella? Quali commenti avrà suscitato la nostra presenza nei corridoi? Ancora domande, più che risposte. 

E domande su di noi, sul nostro rispettare con cura le regole, salutare educatamente i capiposto - gli agenti più alti in grado in un reparto, ricordare ossessivamente agli/alle studenti esterne di avere pronti i documenti e di lasciare tutto il resto fuori, attendere pazientemente l’apertura della porta automatica in un corridoio chiuso, sopportare gli incompresibili cambiamenti nella severità con cui vengono eseguiti i controlli, e farlo unicamente per preservare lo spazio della classe, per evitare che qualsiasi nostro comportamento possa diventare pretesto per sospenderlo. Infatti, benchè l’istruzione sia un diritto anche in carcere, l’attenzione ai nostri comportamenti, alle nostre azioni, ai nostri sguardi svela quanto sia una concessione, sempre in bilico a rischio di essere negata sulla base del più classico dei giudizi morali: non vi siete comportate bene.

Eccoci allora nella nostra contraddizione: rispettare le norme per aprire uno spazio in cui sovvertirle. 



Carlotta Cossutta è ricercatrice precaria in Filosofia Politica e si interessa di storia del pensiero politico delle donne e di teorie femministe, transfemministe e queer. Fa parte del centro di ricerca Politesse e della rete GIFTS e non sa disgiungere teoria e prassi e quindi molte delle sue riflessioni sono nutrite dalla collettiva Ambrosia. Entra in carcere per insegnare studi di genere stringendo forte la mano di Elisa Virgili

Elisa Virgili è ricercatrice indipendente e si occupa di Studi di Genere, Teorie Queer e Filosofia Politica. Fa parte del Centro di Ricerca Politesse e della rete GIFTS ed è docente di un laboratorio di filosofia politica in carcere assieme alla sua complice Carlotta Cossutta. Si allena da qualche anno come pugile nelle palestre popolari e a volte scrive di genere e sport.