Nuove single ladies

di Manuela Stacca, critica televisiva

Grassa, sola e divorata da cani alsaziani. Era questa la paura di Bridget Jones, ancora single all’età di 32 anni. Il film del 2001 tratto dal romanzo di Helen Fielding, Il diario di Bridget Jones racconta la storia di una giovane inglese pasticciona divisa tra il terrore di morire da sola e la frustrazione per le costanti pressioni sociali subite in quanto donna non sposata e childfree; tra il sogno di convolare a nozze e il desiderio di esprimere la propria libertà, anche sessuale.
Negli stessi anni su HBO andava in onda Sex and the City: una serie che metteva in discussione l’istituzione del matrimonio, raccontando la storia di quattro amiche in carriera e sessualmente libere. «Voglio che tu sappia che sto per sposarmi. Con me stessa», dice Carrie in un episodio. A distanza di vent’anni Sex and the City rimane una delle serie tv più sovversive, nonostante il canonico finale del 2004, con tutte le protagoniste fidanzate o sposate. Avvalorando l’idea che una donna single è incompleta, sbagliata e quindi infelice – del resto, nel film del 2017 anche Bridget Jones sposa l’amato Mark Darcy.

Oggi però la condizione femminile è cambiata molto rispetto a vent’anni fa. Le donne si sposano sempre meno (in Italia meno 19% dal 2008), le single non vengono più definite negativamente come “zitelle” e la scelta di rinunciare a matrimonio e prole non viene più stigmatizzata come un tempo. Eppure l’idea che la realizzazione di una donna passi per un uomo e la maternità ancora resiste.
L’attrice Emma Watson di recente ha parlato dell’ansia di compiere 30 anni senza aver messo su famiglia, definendosi “self-partnered”: “in coppia con se stessa”. Un neologismo che rimarca la mancanza di un termine positivo per chi sceglie di stare sola. Come scrivono Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti in Libere tutte (Minimum Fax), in questi anni «non sono mancati del resto contrattacchi alle trasformazioni indotte dal femminismo nei comportamenti di massa», nel tentativo di minare l’autonomia femminile, ormai sempre più centrale tanto nella società quanto nelle narrazioni seriali e filmiche.

L’AMORE ROMANTICO NON È IL FINALE

Co-creata e interpretata da Rachel Bloom, Crazy Ex-Girlfriend (disponibile su Netflix) è una romantic comedy musical senza happy ending romantico, che decostruisce il marriage plot e il concetto di “follia d’amore”. La protagonista Rebecca Bunch si spoglia del ruolo di eroina romantica per prendere coscienza che l’amore non «aggiusta tutto e rende la tua vita magnifica», perché è solo una fantasia alimentata dalle aspettative e pressioni sociali contraddittorie, e dalle tante commedie romantiche, con le quali la protagonista è cresciuta e che sogna di vivere. «Rebecca è pazza a cambiare la sua vita, o è il mondo a farla impazzire?», ha detto in un’intervista la creatrice e attrice Rachel Bloom. «È come se dovresti avere una carriera, ma dovresti anche rinunciare a tutto per amore. Poi, devi essere magra, ma non preoccuparti del tuo corpo; sii orgogliosa del tuo corpo, ma anche ecco qui una panciera. Capisci? Farebbe impazzire chiunque».

Nel suo personale percorso di crescita Rebecca impara a mettere se stessa al primo posto, anche grazie all’amica Paula che ricopre un ruolo cruciale: «Sono venuta in questa città per trovare l’amore e l’ho trovato», afferma riferendosi alle relazioni amicali, «l’amore romantico non è un finale [...]. È solo una parte della nostra storia». Crazy Ex-Girlfriend è una serie che sovverte i tropes narrativi delle commedie romantiche – dalla corsa a perdifiato in aeroporto al triangolo amoroso – e smonta molti stereotipi di genere, tra cui anche la presunta incapacità di stabilire relazioni solide tra donne per colpa di gelosie e rivalità. Dimostrando che le storie sul matrimonio stanno scomparendo dalla cultura pop, rimpiazzate da quelle sull’amicizia, a lungo ignorata e ritornata in questi anni al centro di tanti film e serie tv. Frozen, L’amica geniale o Broad City: comedy di e con Ilana Glazer e Abbi Jacobson (inedita in Italia) su due amiche inseparabili, unite da un amore platonico, che celebrano la fluidità sessuale e rifuggono la monogamia.

SINGLE CHE SI SALVANO DA SOLE

Nel 1877 la suffragetta Susan B. Anthony scrisse che ad un certo punto sarebbe arrivata «un’epoca delle single» perché «le abitudini secolari non possono essere cambiate di colpo. Nemmeno le nuove costituzioni e leggi possono rivoluzionare le relazioni pratiche tra uomini e donne». Da decenni si discute se il matrimonio possa realmente costituire un rapporto paritario o se al contrario sia solo un’istituzione patriarcale obsoleta che preserva i privilegi maschili. Ancora oggi sono in larga parte le donne a svolgere il lavoro gratuito domestico e di cura, a causa della divisione stereotipata dei ruoli di genere. Mentre i matrimoni combinati, lo stupro coniugale e l’abuso delle spose bambine avvengono tuttora in molte parti del mondo.

«Eppure alcune di noi continuano a sposarsi e altre si commuovono ai matrimoni delle amiche», scrivono ancora D’Elia e Serughetti, «E molti dei nostri amici gay, e delle nostre amiche lesbiche non vedono l’ora di poterlo fare».

Il dibattito sul matrimonio è ancora aperto, per quanto le donne senza partner continuino a dominare la serialità televisiva. Un esempio è la protagonista senza nome e «moralmente in bancarotta» di Fleabag (Amazon Prime) che si innamora, ricambiata, del Prete ma che alla fine rimane single. La serie creata, scritta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge, è una storia d’amore classica eppure moderna, ma anche di amicizia e sorellanza. «L’unica persona per cui farei una corsa in aeroporto sei tu», dice la sorella Claire alla protagonista a pezzi per la perdita della madre e dell’amica Boo. Anche se le narrazioni audiovisive si sono quasi sempre concentrate sull’amore romantico, la realtà è che esistono tanti tipi di love story nella finzione come nella vita: quello tra sorelle, amiche, madri e figlie, ma la storia d’amore più importante è quella con noi stesse.

In questo senso, Fleabag è una dramedy che ribalta il trope della broken woman che si disgrega e cade nel baratro perché abbandonata da un uomo – pensiamo a Una donna spezzata di Simone de Beauvoir o a I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante. Nel saggio Discorso sulle donne, Natalia Ginzburg parlava della «malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto», forse a causa della secolare sudditanza delle donne; e dell’«assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio» che ne deriva. Proprio ciò che attanaglia la protagonista di Fleabag, che torna a galla e ritorna a essere una persona “intera”, salvandosi da sola, senza aver più bisogno né del Prete né del suo pubblico.

PICCOLE DONNE AUTONOME

Alla fine, Fleabag è una millennial come tante, solitaria e incasinata, che agisce prima di tutto per compiacere se stessa e vive nell’epoca dell’hookup culture: quella del sesso occasionale e dei friends with benefits. Già rappresentata in Sex and the City e ripresa in Girls, Broad City, Insecure e tante altre, con una moltitudine di single anticonformiste, egocentriche e ciniche che trionfano sul piccolo schermo ma non solo. Il personaggio letterario dell’intrepida scrittrice Jo March di Piccole Donne, ad esempio, ha parecchio in comune con queste unlikeable women.

La trasposizione cinematografica diretta da Greta Gerwig ne fornisce un ritratto ancora più radicale e moderno di quanto non lo fosse già quello di Louisa May Alcott del 1868. La regista sceglie infatti di relegare il tradizionale finale romantico solo alle pagine del romanzo di Jo, per depotenziare il marriage plot. «Le donne hanno una mente e un’anima, non solo un cuore. Hanno ambizioni e talento, non sono solo belle. Sono così stanca di sentire che l’amore è l’unica cosa per cui è fatta una donna! Sono così stanca! Ma mi sento così sola», dice Jo in una scena. Dietro quel “così sola”, aggiunto precisamente da Gerwig, ci sono tutte le contraddizioni e le fragilità di una donna consapevole di dover fare grandi rinunce per raggiungere l’autonomia personale, sociale ed economica. Per realizzarsi e assistere finalmente alla genesi del proprio libro, concepito e rappresentato come fosse la sua creatura appena nata, frutto di un altro tipo di amore: quello per se stessa e il suo lavoro.

In una lettera datata 1852, la scrittrice Charlotte Brontë, da sempre contraria al matrimonio come unico obiettivo di vita, scrisse: «[il problema] non è che io sia una donna single e che rimanga single ma che sono sola e probabilmente mi sentirò sola».

Anche la paura della solitudine può spingere le donne a sposarsi: come spiega Amy March nel film di Gerwig, il matrimonio spesso ha poco a che fare con il romanticismo, al punto da definirlo nient’altro che «una proposta economica». Del resto Piccole Donne è sempre stato, innanzitutto, un grande racconto di sorellanza, capace di ispirare intere generazioni di donne; per la filosofa Luisa Muraro «un capolavoro di astuzia femminile» che annunciava «la fine del patriarcato». Nonché quella del matrimonio, predetta pochi anni dopo da Susan B. Anthony, aprendo la strada alle nuove single ladies: figlie del femminismo della seconda ondata, emotivamente difficili, fallibili ma sempre più autonome e libere.