Riscrivere il Rape-Revenge

di Manuela Stacca

Ci sono due tipi di film rape-revenge: quelli in cui la vittima di violenza sessuale - di norma giovane e attraente - mette in atto la propria vendetta in solitaria e quelli in cui è una persona a lei vicina, spesso di genere maschile (il padre, il fidanzato, un agente di polizia...) a portarla a compimento. Quello che contraddistingue queste storie è proprio la presenza dello stupro come fulcro narrativo, che dà il via all’azione, spingendo personaggi e personagge verso una escalation di violenza sempre più cruda ed efferata.  Il rape-revenge  è considerato uno tra i sottogeneri dei thriller-horror  più problematici, ricondotto spesso ai  B-Movie e ai film di exploitation. Questo accade soprattutto a causa della scrittura mediocre e l’intreccio scontato, per l’eccessiva spettacolarizzazione della violenza e del corpo femminile, che ne risulta sempre oggettificato, sessualizzato e, in qualche modo, mortificato.


Non violentate Jennifer di Meir Zarchi (1978), con i suoi 25 minuti dedicati alla scena dello stupro, è uno degli esempi più famosi di rape-revenge. Così come L'ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972), Lady Snowblood di Toshiya Fujita (1973) e L’angelo della vendetta di Abel Ferrara (1981): uno dei rari casi in cui la protagonista, Thana, si emancipa per trasformarsi in una femme fatale e vigilante pericolosa, senza però titillare e compiacere lo sguardo maschile durante le ripetute aggressioni. Tanto da essere considerato un cult iconico e persino femminista: qui, in maniera piuttosto inedita, la protagonista fa giustizia non solo a se stessa, ma anche a tutta una serie di altre donne, verso cui gli uomini hanno operato violenza. È da notare come i film rape-revenge proliferino in un contesto storico di grande fermento e tensione: siamo nel pieno della seconda ondata femminista e della rivoluzione sessuale, sono gli anni in cui la femminista radicale Robin Morgan conia la celebre frase «La pornografia è la teoria, lo stupro è la pratica». E come sostiene Jacinda Read in The New Avengers: Feminism, Femininity and the Rape-Revenge Cycle, i rape-revenge diventano anche un modo per «dare un senso al femminismo e ai cambiamenti dell’eterosessualità nel post anni Settanta» e al gap tra «vittima (femminile) e vendicatrice (femminista)». Non è un caso allora che nell’epoca post #MeToo i film rape-revenge siano tornati al successo e al centro del dibattito, rinnovati e decostruiti da una prospettiva che si avvicina sempre di più a quella femminista.

Guerriere sovrumane

Uscito nel 2018, a pochi mesi di distanza dallo scandalo di Harvey Weinstein, Revenge di Coralie Fargeat segna un’importante svolta. La protagonista Jen – il nome è un evidente richiamo al film di Meir Zarchi – si trasforma da ammiccante lolita a guerriera sanguinaria e vittoriosa, uccidendo uno a uno i suoi aggressori dopo esser stata violentata, picchiata, impalata e, infine, quasi uccisa. Durante questa trasformazione, repentina e sovrumana, avviene un altrettanto repentino e studiato passaggio dal male gaze al female gaze, che inizia con la messa fuori campo della violenza sessuale e si chiude con una scena nella doccia del violento ex fidanzato di Jen, Richard: nudo, spaventato e inerme, proprio come vengono quasi sempre rappresentate le donne nel genere horror. «Ho avuto l'idea di mostrarlo nudo perché ho pensato che non si vedono mai uomini nudi sullo schermo», ha detto in un’intervista Fargeat. «Era anche un modo per metterlo a nudo con se stesso e con quello che ha fatto, perché inizia la storia molto forte e sicuro di sé come un maschio alfa, e finisce con nient'altro che se stesso». 

Con Revenge, la regista ribalta il rape-revenge senza cambiarne la struttura classica, ma spogliandolo dei suoi topoi narrativi più misogini e rivestendolo con un nuovo punto di vista femminile. Le battute come «sei così bella ed è troppo dura resisterti» sono infatti una critica allo slut-shaming e alla cultura dello stupro. Allo stesso tempo, però, la pellicola mostra delle problematicità; reitera lo stereotipo della bad-ass female indurita ‘grazie’ allo stupro e alle atrocità subite – si pensi a Sansa Stark in Game of Thrones – senza alcun tipo di elaborazione del trauma (come succede di frequente nei rape-revenge).


Guardare la violenza

Alla tendenza descritta esistono però delle eccezioni: una di queste è The Nightingale di Jennifer Kent (2018) che accantona il racconto dello stupro come rito di passaggio, necessario a fortificare la protagonista, per raccontarne invece le conseguenze psicologiche. L’irlandese Clare ci prova a dare la caccia alle guardie britanniche che l’hanno violentata ripetutamente, ma alla fine si rende conto che la furia vendicativa che la spinge a uccidere la fa stare ancora più male. Diversamente da Coralie Fargeat, Kent sceglie di mostrare non solo il trauma ma anche tutta la brutalità della violenza, con una serie di sequenze davvero difficili da vedere (durante la première al Sydney Film Festival molte persone del pubblico hanno persino lasciato la sala). Eppure per la regista «girarsi dall'altra parte, come fosse in qualche modo rispettoso, non ci porta da nessuna parte». Il suo intento è quello di mettere a disagio e destabilizzare chi guarda, mettendo in scena l’abuso come qualcosa di orrorifico e sistemico, usato per dominare l’Altro, e che lega a doppio filo misoginia, razzismo, colonialismo e white supremacy.

Del resto, sulla liceità del rappresentare e guardare la violenza ci si interroga da sempre, specie se a subirla sono i corpi femminili: The Handmaid’s Tale è diventata la serie manifesto del #MeToo ma anche un traumatizzante torture porn, evidenziando il paradosso rischioso che spesso generano queste storie. Quando si parla di violenza sessuale le cose si complicano ulteriormente per il modo in cui il tema è stato storicamente trattato  non solo nei media a noi contemporanei; si pensi alla rappresentazione dell’ eroicità dello stupro nella mitologia greco-romana al codice Rocco che sino al 1996 lo classificava tra i “delitti contro la moralità pubblica”. Tre manifesti a Ebbing, Missouri diretto da Martin McDonagh (2018) ad esempio, punta il dito contro l’indifferenza della società davanti alla morte di una ragazza, violentata e bruciata viva. Il film è una sorta di rape-revenge aggiornato, che evita di mostrare lo stupro ma anche il corpo della giovane uccisa, sovvertendo l’espediente narrativo della dead girl silente, sessualizzata e martoriata.

Visioni dicotomiche

È interessante notare come in tutti i più recenti rape-revenge la figura maschile del padre/marito vendicatore scompaia del tutto, perché lo stupro non è più una questione di onore, costume o “furto di proprietà” tra maschi. In Tre manifesti a Ebbing, Missouri è la madre della vittima, Mildred, a cercare vendetta: una donna che, dalla tuta da lavoro che indossa al linguaggio scurrile che usa, non ha nulla della femminilità stereotipata né della vigilante sexy. La donna vendicatrice, infatti, sconvolge i ruoli di genere, sfida il concetto di maschile/femminile, in quanto motore e protagonista della storia, spinta a farsi giustizia da sola da una società eteropatriarcale castrante. 

Può allora un tipo di racconto ancora così imperniato nel dolore, nel trauma e nella violenza ai danni delle donne dirsi femminista? Promising Young Woman di Emerald Fennell (2020) fa un ulteriore passo avanti in questo intricato processo di decostruzione. Qui nel ruolo di agente della vendetta c’è Cassie, la migliore amica di Nina, vittima di stupro, che nelle vesti di vigilante decide inizialmente di  punire una serie di ‘promettenti’ bravi ragazzi, ma alla fine sceglie di immolarsi al fine di incastrare gli stupratori, privata ormai di qualsiasi speranza e desiderio di vivere.

 La regista costruisce un rape-revenge radicale e anomalo: da un lato, decidendo di non mostrare alcun tipo di violenza, a eccezione per quella sconcertante nel finale; dall’altro, scegliendo una protagonista, alle prese con la gestione del trauma,  che preferisce “ricongiungersi” con l’amica nella morte. Incapace di andare avanti senza di lei e consapevole che non potrà mai riscattarsi in un sistema concepito a misura d’uomo, in cui le donne non vengono ascoltate né credute. Promising Young Woman è sia un inno all’amicizia femminile sia un attacco alla rape culture, che passa attraverso una «catarsi vuota» con l’intento preciso di far discutere. Il film infatti si è rivelato molto divisivo anche tra la critica femminista, perché come scrive Cristina Resa su Ghinea «dice forte e chiaro che all men are trash» con una visione nichilista e manichea che non lascia spazio a nessuna ambiguità. Ma come ha mostrato Michaela Coel con I May Destroy You  (2020) si può produrre una reazione perturbante passando anche e soprattutto per la complessità: senza appiattirsi sulla dicotomia maschi-mostri/donne-vittime. Superando dunque la questione morale del mostrare o meno la violenza e allo stesso tempo scartando la fantasia vendicativa come possibile epilogo. La serie del resto non è un rape-revenge ma una dramedy cruda, scomoda e intima. Mentre la protagonista, Arabella, non è la ‘vittima senza macchia né colpa’ ma una donna che prova con fatica a guarire e ricostruirsi, a suo modo e con i suoi tempi, riuscendoci. Forse la via per rinnovare davvero il filone rape-revenge è questa: riscriverlo al punto tale da non riconoscerlo.