il personale è linguistico


di Manuela Manera, linguista


Iniziamo con una domanda: come si chiama quel comportamento discriminatorio che si verifica in una lingua a causa di un trattamento non egualitario davanti al genere?

Potremmo usare l’espressione “sessismo linguistico” oppure “linguaggio non inclusivo”, dipende se vogliamo rimarcare quanto la lingua rifletta la disparità presente nella società o se abbiamo intenzione di evidenziare l’esclusione di una parte della popolazione dallo spazio simbolico e pubblico della comunicazione.

Le espressioni “sessismo linguistico” e “linguaggio non inclusivo”, passando per “linguaggio di genere / attento al genere” prevalente nei primi anni Duemila, tracciano il percorso di analisi, riflessione e proposte che a partire dalla metà degli anni 80 del secolo scorso si è compiuto in Italia. Quando nel 1987 esce “Il sessismo della lingua italiana”, l’autrice Alma Sabatini – a cui la Commissione nazionale per la Parità e le Pari opportunità tra uomo e donna ha commissionato l’indagine – presenta una radiografia allarmante: non perché la lingua italiana sia di per sé foriera di sessismo, ma perché nella prassi comunicativa il genere femminile è oscurato o quando è presente ha un ruolo stereotipico e subalterno rispetto al maschile in termini di riconoscimento di competenze, prestigio, autorità. In questi ultimi anni, studiose/i e quant* si occupano di lingua in un’ottica di genere indagano non solo il trattamento riservato al femminile ma come la variabile genere entri nel discorso in senso più ampio: attraverso la decostruzione di ciò che è tradizionalmente considerato universale, non-marcato, standard, neutro, si amplia lo sguardo per superare gabbie stereotipizzanti e oltrepassare i rigidi confini del binarismo maschile/femminile.

Se nell’ambito della ricerca e nella pratica di molti collettivi e gruppi si propongono soluzioni per costruire comunicazioni inclusive verso i generi, nella stragrande maggioranza dei testi e degli atti linguistici che ci circondano si ritrovano ancora le stesse scorrettezze che già Alma Sabatini aveva individuato nel 1987 e che l’azione di numerosissimi Vademecum e Linee guida non ha saputo estirpare. Perché?

Le ragioni sono molteplici. Vanno dalla scarsa consapevolezza dei propri comportamenti linguistici, laddove si riproducono passivamente formule introiettate senza porsi domande sulla loro correttezza e sul loro vero significato (penso, per esempio, a espressioni come “Auguri e figli maschi” o “il virus si trasmette da uomo a uomo” o “il ministro Azzolina”), a scelte compiute nella convinzione che il genere grammaticale maschile abbia effettivamente un valore universale/neutro. Valore che invece non ha: “ci si capisce lo stesso” solo perché c’è un lavoro interpretativo che – forzando le regole strutturali dell’italiano – salva la comunicazione (che però molte volte resta ambigua e non pienamente efficace). Quale che sia la motivazione, adottare questi comportamenti linguistici scorretti di fatto ribadisce e rafforza diseguaglianze e discriminazioni.

Guardando al contesto socio-culturale, ci troviamo di fronte a due forze opposte. Da un lato è evidente, se non proprio un backlash, una diffusa e tenace resistenza verso l’uso corretto di dispositivi morfologici, lessicali e sintattici già disponibili nella nostra lingua. Dall’altro lato esistono però anche spinte innovative che pungolano il sistema linguistico con strategie grafiche e foniche sperimentali, in risposta alla “problematica” mancanza di un morfema flessionale neutro, proponendo, come suffissi non discriminatori e non escludenti, * / @ / x / u / ∂ [schwa] o anche, semplicemente, uno spazio vuoto o, a mo’ di segnaposto, l’underscore. 

L’italiano, si sa, è lingua viva e in continua evoluzione, sa adattarsi a nuovi contesti e necessità, in una costante tensione creativa tra norma e uso: si modifica in modo più flessibile e veloce a livello lessicale, più cautamente a livello morfo-sintattico. Dunque, come primo e più facilmente realizzabile passo, iniziamo a usare gli strumenti che l’italiano ci mette già a disposizione: 

  • scegliamo le parole appropriate e decliniamole correttamente (sennò si leggerà ancora “che bravo, fa il mammo” o “il ministro incinta di due gemelli”); 

  • rispettiamo l’accordo morfosintattico (altrimenti avremo frasi come “Federica Mogherini sarà nominata direttore”); 

  • evitiamo omissioni (“corso per futuri imprenditori”, non anche per imprenditrici?); 

  • sfuggiamo le asimmetrie semantiche (Maria Blanchard era una cubista e le discoteche non c’entrano);

  • sottraiamoci ad asimmetrie discorsive che riconducono i generi dentro cornici narrative stereotipiche (vi ricordate le due ricercatrici dello Spallanzani definite “angeli della ricerca”?).

Nel frattempo, continuiamo a sperimentare strategie innovative. Si vedrà quale o quali di queste proposte si assesterà/assesteranno, sciogliendo quelle che ad oggi mi paiono due problematicità: 

1) La prima, effetto dello scardinamento morfologico (sostituzione del morfema flessionale portatore dell’informazione del genere, ma anche del numero), è la non facile comprensione di un testo medio-lungo. 

2) La seconda, l’oscuramento delle differenze di genere: ricorrendo in modo pervasivo a suffissi (* / @ / x / u / ∂ [schwa] / _ ) che significano un ventaglio di possibilità, di fatto si riconducono le differenze all’implicito, nascoste dietro a un segno uguale per tutt*.

Forse un’azione utile per superare la discriminazione ad oggi ancora prepotentemente presente nelle comunicazioni (dalla modulistica agli articoli giornalistici, dalla pubblicità ai manuali scolastici, dai film alle direttive ministeriali, ecc.) potrebbe essere quella di costruire i testi sfruttando tutte le potenzialità già presenti nella nostra grammatica (e messe in luce nelle varie Linee guida), immettendovi però anche, di tanto in tanto, una modalità nuova che appaia – per citare l’antico indovinello veronese ritenuto una delle prime attestazioni della lingua italiana – come un seme nel campo della pagina. Un punto su cui si possa soffermare lo sguardo e che faccia germogliare riflessioni, portando a nuovi movimenti linguistici.

Non dimentichiamo che le parole hanno effetto sulla realtà oltre che sull’immaginario, e che lo spazio del discorso non è solo uno spazio simbolico ma è anche uno spazio pubblico e come tale va abitato, presidiato, costruito. 

Le nostre parole sono atti linguistici: agiamo dunque con responsabilità, ricordando sempre che, sull’eco di un noto slogan, “il personale è linguistico”.